... ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz
Ho seguito pochissimo il Filmaker Festival quest'anno e mi dispiace, ma chiudermi troppo in una sala buia a godere delle creature altrui non fa per me in questo periodo. Tant'è che dopo questo, ieri sera, ci sarebbe stato l'ultimo Wiseman, ma non ce l'ho fatta, il dovere mi chiama. Però Franco Maresco (con Daniele Ciprì direttore della fotografia, non è vero che è scomparso, si è solo defilato) fa la sua cosa più equilibrata, dato il soggetto diciamo più da trapezista. E Tony Scott è uno tutto da scoprire: ha liberato il koto prima di Zorn, ha fiancheggiato Webster, Parker, la Holiday (dio, che regina), e negli ultimi anni ha fatto versioni definitive di una cosa chiamata Lush Life, che neanche Coltrane. Già basterebbe il confronto col suo eterno gemello/rivale, Buddy De Franco ("lui prova sempre, io no") a darci l'idea di che cosa siano genio e sregolatezza da un lato, pulizia e riespettabilità dall'altro. Egomaniaco ossessivo, torturato dalla polizia indocinese non si sa perché (spionaggio? ha rubato la donna al capo di stato? non si saprà mai la verità), ha anticipato la New Age, si è lasciato sedurre (in tutti i sensi) dall'oriente e infine ha preso posto nel paese più giusto per perdersi, il nostro. Il suo fraseggio al clarinetto è già liberato, ha suonato il blues come pochi afroamericani, ha rubato Gil Evans alla classica e lo ha regalato al jazz costringendolo al suo fianco finché il borghese timido timido non ha aperto le sue ali e volato con la sua propria musica. Che volere di più? Una tomba nella sua Sicilia che forse non avrà mai? Non scherziamo, questo è un uomo da amare, non un uomo da marciapiede.