Thursday, December 23, 2010
VOGLIAMO TUTTO
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Saturday, December 11, 2010
L'instabilità necessaria
Una bella serata, strana sotto certi versi. Iniziamo dal setting: siamo al Cinema Palestrina, in una traversa di Corso Buenos Aires. La gente si è affannata fino a poco prima con pacchi, pacchetti, boutiques, acquisti natalizi. Mi ci aggiravo anch'io con un'amica (di solito prediligo le vie laterali, come via Tadino dove c'è una bella libreria gestita da una persona che di jazz ne capisce più di me e che ne ha anche scritto più di me) e cercavo di lasciarmene scivolare addosso l'affanno, la tentazione di esistere, come scriveva Emil Cioran.
Comunque Milano non è una città facile per chi ama la cultura e non la considera né un'utopia né un'orpello delle istituzioni, ma a non lasciarsi scoraggiare di soddisfazioni ne dà. Come il piccolo live, a fine proieizoni, con Tiziana Ghiglioni, Giovanni Maier, Emanuele Parrini, Tiziano Tononi, Daniele Cavallanti che compiono un piccolo miracolo, fatto di suoni caldissimi (chi ricorda i dischi Black Saint prodotti da Giovanni Bonandrini?). Il film di Gianpaolo Gelati e Marco Bergamaschi parte con Livio Minafra che racconta l'origine del collettivo venti anni fa (un sogno, un'idea, come tutte le cose migliori di questo mondo). I momenti più emozionanti sono senz'altro quelli che riprendono l'Orchestra a Istanbul e i ricordi di Emanuele Parrini, l'ultimo e il più giovane dei musicisti, che ricorda, sul pullman durante un viaggio con gli altri membri dell'orchestra, il momento della propria 'iniziazione'. Ci sono voluti sette anni per realizzare questo film, degna celebrazione di una visione che è stata apprezzata da gente come Cecil Taylor ("the Instabile can play") e Ornette Coleman ("they play molto molto bella"). Le proiezioni proseguono, ogni martedì, per tutto il mese di dicembre e le prime due settimane di gennaio.
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Wednesday, December 8, 2010
Wadada Leo Smith "Spiritual Dimensions" (Cuneiform, 2009)
Allora, partiamo dal principio, ovvero dal secondo disco di questo set, registrato alla FireHouse di New Haven nella primavera del 2009. Un omaggio al Miles Davis elettrico come nemmeno i vari progetti del ciclo Yo!Miles. Ben quattro i chitarristi in formazione (Nels Cline, Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith), due bassi, uno elettrico (Skuli Sverisson) e uno acustico (John Lindberg), oltre al violoncello di Okkyung Lee in formazione, Pheeroan AkLaf alla batteria. Eppure il suono di queste composizioni è una quintessenza di quello che infiammò il mondo (o meglio, i mondi) della musica più di trentacinque anni fa. Questione di stile, di sensibilità, la lucidità della visione. Timbri caldi ma taglienti come lame di rasoio, un’eleganza e una fluidità che tradiscono una precisione chirurgica sul corpo musicale che solo i grandi mistici, quelli meditativi, posseggono e una attitudine zen nell’utilizzare una quantità di musicisti che si potrebbe pensare devoti al massimalismo per esprimere, invece, solo l’essenziale. Insomma, niente tracce di muscoli: è lo spirito che si risolleva dalla schiavitù per inneggiare ad Angela Davis (Tricky senza cut and paste e senza paranoia ma con la tensione post-millennio che non ha saputo incarnare), per scomporre il dub mutante del primo post punk britannico e restituirlo sotto forma di reggaefunk scheletrico alle proprie radici decostruite. Musica che potrà sembrar noiosa o già sentita solo a chi non sa. Così anche Organic, con Nels Cline che compie definitivamente la sua trasmigrazione dai giorni dell’acquisizione del suo armamentario post No Wave e che trasmigra la sua anima sperimentale nei territori del funk dopo aver sperimentato le gioie del dialogo con gente come Elliott Sharp. Il pedale di basso su cui si muove tutta Joy: Spiritual Fire: Joy, che è forse la risposta alla davisiana Ife pubblicata in Big Fun del 1971 e a In A Silent Way insieme.
Il primo set invece, acustico, registrato dal vivo al Vision Festival del 2008, in formazione Pheeroan AkLaf e Don Moye alla batteria (ricordate i tentativi di Ornette ma soprattutto le geometrie dei settetti di Henry Threadgill?), Vijay Iyer (uno dei più bei regali all’Occidente dalla terra del Gange, fluido, lirico e maestoso allo stesso tempo) al pianoforte, John Lindberg al basso. Wadada alterna sordina e pedali in South Central L.A. Culture (il cuore del doppio album, dato che viene ripresa anche nella parte elettrica in una versione più quadrata), ci regala quelle impennate liriche che già appartenevano al suo registro nei giorni sperimentali delle varie release indipendenti con Anthony Braxton e che i dischi ECM ci avevano fatto scoprire in tutta la sua liricità cristallina ma soprattutto, a partire dall’iniziale Al Shadhili’s Litany of the Sea: Sunrise, ci regala atmosfere degne del Don Cherry innamorato dell’oriente dei due Mu cotitolati al compianto Ed Blackwell, crea e rilascia textures, monologhi e dialoghi strumentali fatti di tensioni comunicative. Pacifica, con Iyer al piano e al sintetizzatore contemporaneamente, come certe composizioni di Roscoe Mitchell è flusso sonoro carico di detriti, joyciano nel suo stratificarsi orizzontale in attesa perpetua di un decollo sempre trattenuto. Tensione, ancora, ricami di contrappunto, fini, call and response che del blues mantengono la sostanza per poi lasciar posto ad apparizioni spettrali sottolineate da un lirismo metafisico, a tratti debussiano; Umar at the Dome of the Rock, parts 1 & 2, strumenti che tessono la trama dello spazio e se ne fa compenetrare. Atmosfera quasi religiosa, gli strumenti che parlano all’anima, quella che il mondo vorrebbe levarci nel vociare della socialità, e che sul palco invece viene restituita all’espressione delle individualità, ai loro timbri, alle loro interazioni. Crossing Sirat, timbrica allo stato puro, ritmicità del colore, flusso sonoro, il discorso musicale a partire dalla texture, dall’interlacciarsi degli strumenti e delle loro schegge sonore. E poi, appunto, South Central L.A. Kulture, dub mutante con Wadada che alterna wah wah e sordina, acustico ed elettrico, e si capisce che sì, la scena londinese del Wild Bunch aveva capito tutto.
Il doppio album aveva trovato spazio negli scaffali l’autunno dello scorso anno, pubblicato da una Cuneiform che ci ha regalato, tra ristampe delle macchine molli e delle fratellanze sudafricane, tra nostalgie progressive fuori tempo ma degne di rispetto proprio perché fuori dalle mode e motivate solo da amore e rispetto, la sua zampata di classe. Non troverete nulla che non sia già stato detto, forse, in questi metacrilati, se non, per l’ennesima volta, il modo migliore per dire l’essenziale, e al meglio, nel momento stesso in cui lo si crea.
Elenco dei brani:
CD 1:
01. Al-Shadhili's Litany of the Sea: Sunrise; 02. Pacifica; 03. Umar at the Dome of the Rock, parts 1 & 2; 04. Crossing Sirat; 05. South Central L.A. Kulture
CD 2:
01. South Central L.A. Kulture; 02. Angela Davis; 03. Organic; 04. Joy; 05. Spiritual Fire: Joy.
Musicisti:
Wadada Leo Smith, tromba; Vijay Iyer, pianoforte, sintetizzatore; John Lindberg, contrabbasso; Pheeroan AkLaff, batteria; Don Moye, batteria; Nels Cline, Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith (#1 e #4), chitarra; Okkyung Lee, violoncello; Skuli Sverrisson, basso elettrico.
CD 1:
01. Al-Shadhili's Litany of the Sea: Sunrise; 02. Pacifica; 03. Umar at the Dome of the Rock, parts 1 & 2; 04. Crossing Sirat; 05. South Central L.A. Kulture
CD 2:
01. South Central L.A. Kulture; 02. Angela Davis; 03. Organic; 04. Joy; 05. Spiritual Fire: Joy.
Musicisti:
Wadada Leo Smith, tromba; Vijay Iyer, pianoforte, sintetizzatore; John Lindberg, contrabbasso; Pheeroan AkLaff, batteria; Don Moye, batteria; Nels Cline, Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith (#1 e #4), chitarra; Okkyung Lee, violoncello; Skuli Sverrisson, basso elettrico.
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Monday, November 29, 2010
Io sono Tony Scott (Filmaker Festival, 28 novembre 2010)
... ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz
Ho seguito pochissimo il Filmaker Festival quest'anno e mi dispiace, ma chiudermi troppo in una sala buia a godere delle creature altrui non fa per me in questo periodo. Tant'è che dopo questo, ieri sera, ci sarebbe stato l'ultimo Wiseman, ma non ce l'ho fatta, il dovere mi chiama. Però Franco Maresco (con Daniele Ciprì direttore della fotografia, non è vero che è scomparso, si è solo defilato) fa la sua cosa più equilibrata, dato il soggetto diciamo più da trapezista. E Tony Scott è uno tutto da scoprire: ha liberato il koto prima di Zorn, ha fiancheggiato Webster, Parker, la Holiday (dio, che regina), e negli ultimi anni ha fatto versioni definitive di una cosa chiamata Lush Life, che neanche Coltrane. Già basterebbe il confronto col suo eterno gemello/rivale, Buddy De Franco ("lui prova sempre, io no") a darci l'idea di che cosa siano genio e sregolatezza da un lato, pulizia e riespettabilità dall'altro. Egomaniaco ossessivo, torturato dalla polizia indocinese non si sa perché (spionaggio? ha rubato la donna al capo di stato? non si saprà mai la verità), ha anticipato la New Age, si è lasciato sedurre (in tutti i sensi) dall'oriente e infine ha preso posto nel paese più giusto per perdersi, il nostro. Il suo fraseggio al clarinetto è già liberato, ha suonato il blues come pochi afroamericani, ha rubato Gil Evans alla classica e lo ha regalato al jazz costringendolo al suo fianco finché il borghese timido timido non ha aperto le sue ali e volato con la sua propria musica. Che volere di più? Una tomba nella sua Sicilia che forse non avrà mai? Non scherziamo, questo è un uomo da amare, non un uomo da marciapiede.
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Thursday, November 18, 2010
Lê Quan Ninh + Masaki Iwana - Festival PULSI, Triennale Bovisa, Milano
Il primo spettacolo butoh, Colori Proibiti (Kinjiki) fu presentato da Tatsumi Hijikata nel 1959. Lo spettacolo, basato sull'omonima novella di Yukio Mishima, aveva per argomento l'omosessualità. L'immagine finale di Yoshito Ohno (figlio dello scrittore Kazuo Ohno) con un pollo vivo tra le gambe fu talmente oltraggiosa per la platea che lo spettacolo venne censurato spegnendo le luci sul palcoscenico. Tatsumi Hijikata venne bandito dal festival ed etichettato come iconoclasta. Grottesco, oscuro, decadente. Nella danza Butoh il danzatore si trasforma in animale, oggetto, coinvolgendolo sul piano psicologico e fisico.
“…la danza è “la realizzazione di un sogno attraverso il corpo”. Quando dico “corpo” mi riferisco ad un corpo totale, che include tutti i livelli: il bio-scheletro, lo spirito e l’intuizione. La danza non è di per sé movimento ma è profondamente connessa con il movimento…” (Masaki Iwana – Atene 2009)
Lê Quan Ninh nasce a Parigi nel 1961. Studia al Conservatoire National de Région de Versailles sotto la direzione di Sylvio Gualda e al Conservatoire de Bondy. Parallelamente inizia a interessarsi all'improvvisazione, al teatro e alla danza. Nel 1987 incontra Peter Kowald al Free Music Festival di Anversa, e da quel momento inizia a collaborare con gli artisti più disparati: Kazue Sawai, Sainkho Namtchylak, Seizan Matsuda, Zeena Parkins, Junko Ueda, Ishii Mitsutaka, Leo Smith, Savina Yanatou, India Cooke, Xu Feng Xia, Werner Lüdi, Gunda Gottschalk, Butch Morris. Tra le varie collaborazioni, parte importante del suo lavoro è condiviso con danzatori, come Clara Cornil Iwana Masaki, Valérie Métivier, Nakamura Yukiko, Michel Raji, Pascal Delhay, Olivia Grandville, Franck Beaubois et Patricia Kuypers. Nel 2006 fonda con la violoncellista Martine Altenburger l'ensemble]h[iatus, gruppo dedito alla musica contemporanea i cui membri sono di volta in volta compositori e improvvisatori.
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Sul Divenire
"E' il vostro tempo: il vostro tempo per fare ricerche, per approfondire, per arare la terra ricca e fertile di voi stessi. Lì troverete tutte le risposte che valgono. Vi trovate nel momento in cui avete imparato una delle più potenti verità: che talvolta noi, persone più anziane, non abbiamo le risposte. Perciò vi invito a scavare, finché il tesoro della verità non viene dissotterrato in ciascuno di voi e, una volta trovato, viene portato alla luce. Il vostro compito non è facile, ma è necessario. Perché le foreste del domani dovranno essere piantate da voi. Nutrite la mente non solo con le informazioni, ma con la conoscenza che alimenta il proprio sè più profondo ed interiore. Fate domande su ciò che vedete, ascoltate e leggete, anche di voi stessi"
Mumia Abu-Jamal
Saturday, October 23, 2010
The Shadow Knows
“My reference is the blues, and that’s where my music comes from. I do listen to music of other cultures, but I just find them interesting. I don’t have to borrow from them. My music and my past are rich enough. B.B. King is my Ravi Shankar.”
Marion Brown è morto mercoledì. Aveva 79 anni, ed era noto ai più per le sue partecipazioni a due pietre miliari dell'improvvisazione d'avanguardia: Ascension di John Coltrane e Fire Music di Archie Shepp (con cui incide anche Three For Shepp e Attica Blues). Ma aveva pubblicato anche molti dischi in proprio, per le etichette che avevano tracciato la storia del genere: la ESP e la Impulse!, su tutte. Si è mosso anche in ambito accademico: proprio a partire dagli anni settanta insegna in prestigiosi college (Amherst, Wesleyan e Bowdoin).
Da cosa incominciare a ricordarlo? Sicuramente dai capolavori dei colleghi 'maggiori' già citati e dalle sue cose pubblicate dall'etichetta di Bernard Stollman. Poi esiste una discografia (la trovate linkata a fine articolo) dove varrebbe la pena spaziare, dato quel che è contenuto.
Sicuramente bisognerebbe procurarsi la raccolta Wildflowers con il meglio delle sessions registrate nel loft di Henry Threadgill e originariamente pubblicate nel 1976 (era stato ristampato in doppio CD meno di una decina di anni fa); Porto Nuovo, il disco inciso in trio con Han Bennink alla batteria e pubblicato (addirittura) dalla Polydor nel 1969; Duets, inciso nel 1973 con Non-Ancora-Wadada Leo Smith (Arista/Freedom); il disco di composizioni pianistiche per Amina Claudine Myers del 1979 (Poems For Piano), tra le curiosità. Poi ci sarà da spaziare in lungo e in largo, come sempre.
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Monday, October 18, 2010
Christian Wolfarth Enrico Malatesta Duo (The Lift, Milano, luogo segreto, 18/10/2010)
Si presentano con Attila Favarelli puntuali davanti al luogo di ritrovo, e quando entriamo tutti, fino a riempire la piccola saletta dove stiamo comodamente assembrati su tre file iniziano a produrre suoni con i loro strumenti. Un'oretta circa di sfregamenti, echi, circolarità, vibrazioni. Christian Wolfarth, classe 1960, nasce a Zurigo; discepolo di Pierre Fabvre, in carnet ha incisioni e concerti con gente del calibro di Axel Dörner, Paul Lovens, la London Improvisers Orchestra, Albert Mangelsdorff, Günter Müller, Andrea Neumann, Evan Parker, Irène Schweizer, Günther Sommer, Phil Wachsman, Michael Zerang (giusto per fare qualche nome). La crema della scena impro / avant / sperimentale / minimalista / massimalista europea, insomma. Oltre che con Enrico, esegue regolarmente performance in solo (ha anche pubblicato un CD con la storica etichetta Delmark) o in altre situazioni in duo o in trio, non necessariamente legate all'impro ma anche all'elettroacustica.
Enrico Malatesta è un giovane percussionista italiano, laureatosi al Conservatorio "Bruno Maderna" di Cesena, già collaboratore di vari progetti di in area indie / impro /avant. Il suo lavoro più recente è un solo percussion di opere di John Cage, Earle Brown, Morton Feldman, Karlheinz Stockhausen; collabora, tra gli altri, con Stefano Pilìa e fa parte del trio Sportswear Revenge (laptop, turntable, percussioni).
L'etichetta Presto!? ha dato alle stampe ad aprile di quest'anno il CD Mirrors, registrato al Cosabeat Studio di Villafranca di Forlì. Una performance di 36 minuti divisa in sette tracce che testimonia fedelmente il loro dialogo sonoro, complice un'ottima qualità di registrazione.
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Thursday, October 7, 2010
OUT TO LUNCH! (1964): Eric Dolphy, il rivoluzionario sghembo
Pubblicato lo stesso anno di A Love Supreme di John Coltrane, Out to Lunch! è annoverato tra i capolavori di quella corrente musicale allora chiamata New Thing o, dai suoi detrattori, Anti-jazz. E' anche considerato il 'testamento spirituale' dell'arte di Eric Dolphy. Uno dei capolavori della musica del novecento, ma anche un oggetto che ci permette di intravedere i segni di quelle trame che, di lì a qualche anno, vedranno letteralmente esplodere nuove 'contaminazioni' tra una musica saldamente ancorata alle proprie radici ma capace di dialogare alla pari con mondi diversi. Pensate solo a quanto ha prodotto Anthony Braxton (dall'amore dichiarato in parole e musica per la contemporanea alle collaborazioni con Richard Teitelbaum), o alla 'musica totale' di Don Cherry (le aperture alle musiche poi conosciute come 'etniche' e le collaborazioni con Penderecki). Del resto, le fonti alle quali ha attinto la musica e la tecnica di questo strumentista, lo vedremo tra breve, sono delle più varie, anche se ricondotte ad un'ottica e ad una estetica 'blues'.
Sarebbe sbagliato fermarsi ad etichettare "Out to Lunch!" come un disco di musica 'improvvisata'. Il disco in questione non è, infatti, frutto di una unica session di registrazione, come era accaduto nel 1960 con "Free Jazz" del doppio quartetto di Ornette Coleman (in cui Dolphy era alla testa del secondo quartetto). Si tratta di un lavoro molto più simile, nella gestazione anche se non nei risultati, ai coevi dischi di Cecil Taylor (Unit Structures, Conquistador!). Non è un caso, del resto, che uno dei brani sia dedicato a Severino Gazzelloni, uno dei massimi strumentisti dell'avanguardia colta europea. Il legame con l'Europa, prima della 'diaspora' dell'AACM, verrà testimoniato inoltre da quel 'Last Date' che, con la presenza del pianista olandese Misha Mengelberg, anticipa quel legame con l'Europa che, dagli anni settanta in poi, permetterà, la definitiva affermazione della 'great black music' nel vecchio continente e la nascita di nuovi, fecondi rapporti con le scene autoctone che proprio alla fine degli anni sessanta avevano iniziato ad elaborare una propria autonoma identità musicale.
Il polistrumentista di Los Angeles, del resto, era dotato di una curiosità onnivora, e le sue collaborazioni sono testimonianza di interessi che potrebbero apparentemente sembrare antitetici. Due nomi per tutti: Gunter Schuller, il rispettato e 'musicalmente corretto' fautore di quel fallimento (storicamente parlando...) denominato "Third Stream" (ovvero il tentativo di unire jazz e musica classica europea) e Ornette Coleman, profeta del 'jazz a venire' e della 'libertà', così avversato dalla critica ai suoi inizi per la sua totale mancanza di 'ortodossia'. A dire il vero, visti con il 'senno di poi', non si tratta di materie così distanti: se Charlie Parker, girava portandosi sotto il braccio gli spartiti dell'Uccello di Fuoco di Stravinsky, un altro 'santone' della musica nera, John Coltrane, aveva esaminato attentamente le ultime opere del compositore russo, oltre che i famosi studi sulla scala cromatica lidia di George Russell (che con Schuller e la sua banda di 'risciacquatori del jazz in acque bianche', aveva più di un interesse e una collaborazione in comune).
Formatosi nell'orchestra di Roy Porter alla fine degli anni '40, Eric Dolphy inizia ad acquisire visibilità nel quintetto del pianista Chico Hamilton, prima di incominciare, a partire dal 1959, una feconda amicizia e collaborazione con il contrabbassista Charles Mingus; del 1960 è il suo esordio come leader per la Prestige, con il disco "Outward Bound".
Ancora prima, nel 1957, Dolphy aveva partecipato ai corsi estivi tenuti a Darmstadt dal flautista Severino Gazzelloni, figura importante per la musica colta europea. E' il musicista che ha ridestato interesse attorno al flauto come strumento solista, e Dolphy ne è stato l'equivalente nel mondo della musica improvvisata. Nessuno prima di lui aveva sviluppato un linguaggio solistico per uno strumento dal suono così sottile, soprattutto in un'epoca in cui era il sassofono tenore (o il contralto) a dominare nell'immaginazione della musica nera, e in cui i musicisti più avventurosi stavano 'alzando il volume' a livelli, dalla metà del decennio, in alcuni casi quasi 'disumani' (basti pensare alle performance dal vivo di Pharoah Sanders a fianco di Coltrane....). Eppure le abilità che Dolphy sta sviluppando in questi anni sono funzionali ai suoi interessi onnivori: dal punto di vista strumentistico, se il merito maggiore di Eric Dolphy è stato proprio quello di aver innalzato il flauto al rango di uno strumento solista, gli intervalli atipici e le dissonanze di cui si dimostra capace al clarone sono un'altro dei suoi tratti distintivi (come testimoniano i suoi interventi a fianco dell'amico John Coltrane). Ancora, Enzo Pavone nota l'incontenibilità di Dolphy al contralto, lo strumento d'elezione di Charlie Parker e, poi, di Ornette Coleman. Seppure 'incastrato' tra questi due giganti, a Dolphy non mancano la fantasia e la tecnica; a quanto riferisce Enrico Bettinello a proposito di G.W., dall'esordio come leader "Outward Bound", "il solismo di Dolphy [si spinge] verso nuove direzioni, in cui l'influenza parkeriana è integrata e superata da una più ardita concezione intervallare".
Il 1960 è forse l'anno di più frenetica attività per Eric Dolphy. Se a gennaio incide il primo disco come leader, è tra questa incisione e quella di "Out There", in agosto, il primo tour con Charles Mingus, con cui Dolphy collabora dall'anno prima e in maniera discontinua fino al 1964. Il 21 dicembre di quello stesso 1960 Dolphy incide due dischi in un giorno: "Free Jazz" di Ornette Coleman, alla testa del secondo quartetto presente sull'album, e, a proprio nome, "Far Cry". Non bastasse, il giorno prima aveva partecipato alle sedute d'incisione di "Jazz Abstractions" di John Lewis, con Coleman e Bill Evans, Jim Hall e Scott LaFaro sotto l'attenta orchestrazione di Gunther Schuller e assieme ad un quartetto d'archi.
Ma saranno Mingus e Coltrane, in quegli anni, i partner privilegiati. Se col contrabbassista Dolphy condivide l'esperienza della Candid, uno dei primi tentativi, e di valore artistico assoluto, di etichetta 'autogestita' da musicisti di colore (vale la pena che prendiate nota di qualche titolo: "Charles Mingus Presents Charles Mingus", "Candid Dolphy" e la famosa "Freedom Now Suite" del batterista Max Roach), dal 1961 il nostro si dedica anche al progetto musicale di Coltrane. Di Dolphy sono le orchestrazioni dei fiati di "Africa/Brass", esordio dell'amico sassofonista per la Impulse!, e a fianco del più celebrato quartetto della storia del jazz Dolphy sarà presente nelle storiche serate del Village Vanguard (documentate nel cofanetto "The Complete Village Vanguard Recordings", oltre che su "Impressions"). Assieme a Trane, Dolphy si ritroverà, infine, davanti al 'tribunale' della rivista Down Beat per rispondere alle 'accuse' di suonare una musica 'nichilista'.
“Trovo piacevole quanto sto cercando di fare. Interessante – è questo che mi spinge. Questa sensazione mi aiuta a suonare. E’ come se non avessi idea di quello che farai dopo. Non ne hai idea, ma quel che accade è sempre qualcosa di spontaneo. E’ questa sensazione, per me, a guidare tutto il gruppo. Quando John suona, ti può condurre a qualcosa che non hai idea di come terminare. Oppure è McCoy a fare qualcosa. O il modo in cui suonano Elvin [Jones, il batterista del gruppo] o Jimmy [Garrison, il bassista]; fanno un assolo, fanno qualcosa in maniera differente. Sento che è questo ciò che fa per me" ("John Coltrane and Eric Dolphy Answer The Jazz Critics", dalla rivista "Down Beat", 1962)
La risposta di Dolphy indica una delle coordinate fondamentali della musica che si stava sviluppando in quegli anni: l'interazione come stimolo a trovare nuovi linguaggi e nuove strutture nel momento stesso in cui si suona. I concerti e i dischi registrati in studio come banco di prova e testimonianza di una evoluzione in cui ci si confronta con le proprie radici, la propria tradizione (una cosa che distingue la cosiddetta 'avanguardia' jazz rispetto a quella colta è che la 'rottura' col passato è più una sensazione della critica, mentre i musicisti si sentono 'nel solco' di quella tradizione, hanno la chiara percezione - più volte ribadita anche pubblicamente - di sviluppare qualcosa che non nasce dal nulla, ma che è il naturale sviluppo di quanto fatto dai loro predecessori). Non è un caso che Dolphy abbia pubblicato, in un arco di tempo brevissimo, otto album a proprio nome e abbia collaborato, limitandoci all'essenziale, almeno a un'altra dozzina di dischi. Come per Coltrane, che dal 1964 al 1967 registra incessantemente nuovo materiale negli studi di Van Gelder, o come per Albert Ayler, si è parlato spesso di una creatività spinta agli estremi, quasi fosse un presagio della prematura scomparsa di artisti che in un lasso di tempo brevissimo hanno lasciato un corpus di opere notevole. Credo che sia piuttosto da sottolineare come l'urgenza di una musica che è mossa più dal bisogno di 'progredire' che di 'definirsi' e che per questo si sottopone a incessanti stimoli, abbia trovato nelle incisioni un punto d'appoggio fondamentale per dare testimonianza di se stessa e delle proprie tappe più importanti. Lungi dall'essere iperattività o presenzialismo (come troppo spesso succede oggi, in epoca post-moderna, e non solo nell'ambito dell'improvvisazione), quando non, addirittura, consapevolezza della e resistenza alla morte (una visione a nostro giudizio troppo romantica eppure sostenuta da parecchi, vedi Frank Kofsky nel suo "John Coltrane and the Jazz Revolution of the '70s"), si è trattato di una stagione che ha potuto piantare fertili semi creativi; e, anche se non possiamo non sottolineare che ci sia sicuramente stata anche una qualche forma di speculazione discografica (post mortem), pochi se non quasi nessuno di quei 'prodotti' sono superflui. Al limite, alcuni sono più importanti di altri in quanto luoghi in cui assistiamo ad una ricomposizione della pratica musicale, in cui nuovi stimoli e soluzioni espressive vengono elaborate allo scopo di rinnovare un linguaggio sempre in fermento e capace di assimilare linguaggi e forme 'altrui' integrandole nella propria ottica o, viceversa, mutandola. "Out to Lunch!" si distacca parecchio da quanto Dolphy ha fatto in precedenza. Teso tra libertà creativa da un lato, e consapevolezza compositiva dall'altra, "Out to Lunch!" è un capolavoro di sincretismo ed equilibrio tra direttrici.
"La libertà in Dolphy è raggiunta in un corpo a corpo con una struttura da aggirare, scavalcare, infrangere. Lo stesso vale per il ritmo. Out To Lunch! appare "più libero" dei dischi precedenti perchè prima Dolphy aveva ritmiche normali, col piano che fa gli accordi. Qui no." (Marcello Piras).
Eccoci quindi al lavoro di Dolphy e dei suoi sodali, non semplici 'accompagnatori' ma veri e propri musicisti 'alla pari' ("In Out to Lunch! non ci sono leader", dichiarerà lo stesso Dolphy).
Freddie Hubbard, trombettista, aveva destato scalpore alla tenera età di 18 anni tra le file dei Jazz Messengers di Art Blakey; rimarrà sempre molto legato al mondo dell'hard bop, nonostante sia stato, assieme a Booker Little, tra gli innovatori del proprio strumento e le numerose scorribande in territori più liberi. Il suo fraseggio, nervoso e controllato nello stesso tempo, si adatta perfettamente all'emotività apparentemente trattenuta (e per questo foriera di tensione) che caratterizza il disco. Già collaboratore di Eric Dolphy in Free Jazz, parteciperà anche, l'anno successivo, al capolavoro Ascension di Coltrane. Ritmicamente 'ortodosso', è capace di scatti nervosi e controllati nello stesso tempo; in questo disco potete ascoltare come ama 'raddoppiare' le melodie dei temi dolphyani e, poco dopo, lanciarsi in performance solistiche 'di fuoco'. Bobby Hutcherson (di qui a poco anche a fianco di Archie Shepp, come testimonia l'album "New Thing At Newport") ha una concezione 'orchestrale' del proprio strumento. Non è un vibrafonista nel senso tradizionale del termine: le sue note 'in sospensione' sotto gli assolo graffianti di Dolphy, la concezione armonica dei suoi stessi assolo, la ricettività nei confronti dei suoi compagni (che si tratti di fare da bordone per sottolinearne i passaggi o che risponda con prontezza alle loro intuizioni - un colpo di tom del batterista cui ribatte quasi in funzione contrappuntistica, una melodia per sostenere un contrabbasso archettato, la ripetizione di una melodia o addirittura di un frammento di un assolo di Hubbard....) mostrano una sensibilità e un'inventiva pari a quella di un pianista come McCoy Tyner, che si serve di accordi aperti per evitare di definire in maniera predeterminata la struttura di un brano. "Il vibrafono di Bobby ha un suono più libero, più aperto di quello di un pianoforte. Il pianoforte sembra avere il controllo su quello che fai, mentre il vibrafono di Bobby è in grado di spingerti ad espandere le tue possibilità" (Eric Dolphy). Richard Davis, avesse lavorato solo a questo disco, un posto nella storia della musica se lo sarebbe meritato senza se e senza ma. Ricettivo nei confronti della tradizione 'colemaniana' di bassisti come Scott LaFaro e Charlie Haden, dimostra la sua abilità sia nel suonare modulazioni di accordi pizzicando più note (ascoltate il modo in cui 'prepara lo spazio' all'introduzione del tema di Hat And Beard) sia con l'archetto; è ugualmente abile nei legati, e dimostra di saper alternare sapientemente le varie tecniche con una versatilità che ne fanno il perfetto contraltare melodico-ritmico del leader (potete verificarlo ascoltando l'inizio e lo sviluppo di Something Sweet, Something Tender). Forse, dopo mezzo secolo di swing, i musicisti jazz hanno sviluppato una specie di metronomo interiore. Non hanno più bisogno di un accompagnamento ritmico, ma di qualcosa che fornisca loro una maggiore apertura ritmica. Questa l'idea di base del batterista Anthony Williams, ideale anello di congiunzione tra la complessa poliritmia di un Elvin Jones o di un Ed Blackwell e la totale libertà ritmica di un Sunny Murray. Lo snare ed i cimbali sono, tra i vari componenti del suo strumento, quelli che in questa registrazione mostra di prediligere per dare colore, movimento e per dialogare con gli altri musicisti.
La perfetta integrazione tra i musicisti non è frutto del caso o dell'estemporaneità. Dolphy aveva già avuto modo di suonare con ognuno di loro, negli anni precedenti, con l'eccezione del batterista. Hubbard era presente su "Outward Bound", e Dolphy aveva contraccambiato il favore suonando sul disco d'esordio del trombettista come leader, "The Body and the Soul", pubblicato un anno prima delle presenti sedute di incisione. Erano stati, come già sottolineato, entrambi nello stesso quartetto nello storico doppio album di Ornette Coleman del '60, continuando poi a frequentarsi in dischi come "Olé!" di Coltrane e "The Blues and the Abstract Truth" di Oliver Nelson. Davis aveva partecipato ai concerti al Five Spot da cui la Prestige ricaverà tre album live a nome di Dolphy, ed inoltre entrambi avevano partecipato alla Orchestra U.S.A. di Gunther Schuller e John Lewis. Hutcherson è sicuramente il musicista che ha collaborato più a lungo con Dolphy, dato che i due si conoscevano da quando erano ragazzi, e il vibrafonista era diventato partner regolare di Dolphy da quando un giovane Herbie Hancock aveva lasciato il suo gruppo per unirsi a quello di Miles Davis. Williams è dunque, come dicevamo, la 'mosca bianca' del gruppo: non un novellino, comunque, dato che nel suo curriculum compaiono i nomi di Jackie McLean e di Gracham Moncur III.
Aperto da un secco unisono di tromba e clarone, Hat and Beard è un omaggio di Dolphy a Thelonious Monk. Le coordinate del disco sono stabilite sin dall'inizio: dopo quella secca nota introduttiva, contrabbasso e batteria stabiliscono l'andamento del brano, con una figura di basso enfatizzata dagli echi del vibrafono, che ne raddoppia la melodia sinusoidale. Dolphy segue la melodia di Davis con una serie di note slegate per poi introdurre un nuovo tema assieme ad Hubbard. Parte il primo assolo di Dolphy: rauco, graffiante, con un'ampiezza armonica maneggiata con serenità quasi zen eppure emozionante (ascoltate i suoi salti dal registro basso a quello acuto), alternando suoni distorti e pause, nelle quali Davis si serve di tutte le doti coloristiche del contrabbasso per sottolineare il contrasto tra i 'pieni' e i 'vuoti' del leader. Nonostante il suo andamento sembri 'marcettistico', è nell'elasticità dell'eloquio che assaporiamo la libertà e la fantasia di cui l'ensemble è capace. Ma è durante l'assolo di Hubbard che Davis mostra la sua capacità di padroneggiare la tavolozza dei colori del proprio strumento, passando al pizzicato finché non entra, con un proprio assolo, il vibrafono, cui Williams fa da contrappunto con snare e cimbali. A questo punto, Hubbard e Dolphy chiudono con la ripresa del loro tema iniziale, di nuovo in unisono.
Essenziali come Monk, insomma, parco di note al punto di essere accusato di "non saper suonare", dimostrando, al contrario, una concezione dello spazio sonoro atipica per il periodo. Dovrebbe essere ormai chiaro che "Mad Monk" non era un bopper, anche se quello era 'il linguaggio dei tempi' e, di conseguenza, dei musicisti che lo accompagnavano: per questo l'autore di Brilliant Corner ha creato musica che è stata poi tenuta in considerazione anche da artisti di correnti artistiche differenti - pensiamo alla rilettura di 'Epistrophy' da parte dei Lounge Lizards - mentre musicisti pur geniali come Parker o Gillespie sono sempre rimasti legati, a livello di immaginario, al jazz e da lì non sono mai usciti. Detto che non stiamo sminuendo figure così importanti, stiamo solo affermando che non c'è mai stato un recupero 'dal basso' del materiale elaborato dai geni del bebop, mentre musicisti 'collaterali' come Monk, e, più tardi, Mingus e Ayler (altri due 'eccentrici') sono stati ampiamente ascoltati e recepiti anche in ambienti esterni al mondo del jazz. E che tutto ciò non è frutto del caso.
Un altro saggio delle capacità di Dolphy al clarone è Something Sweet, Something Tender. Si tratta, in sostanza, di un lirico dialogo tra clarinetto e basso; Davis enfatizza con l'archetto il tema di Dolphy, iniziando così un dialogo in cui, quasi in punta di piedi, si introducono piano piano gli altri strumentisti (Williams utilizza pochissimo le bacchette, prediligendo le spazzole per quasi tutto il brano). Hubbard prende il posto del basso prima di lasciare Dolphy da solo, delicatamente accompagnato da un Hutcherson che colora l'assolo del compagno con qualche leggera vibrazione, finché la tromba non torna ad accompagnare il tema iniziale (ecco che Williams passa alle bacchette...). Ai graffi di Dolphy fanno eco alcune rapide figure di basso; ancora qualche accordo e il clarinetto è di nuovo in solitudine per poi essere di nuovo accompagnato da un contrabbasso che raddoppia la melodia giocando su cambi di registro.
Gazzelloni è, come anticipavamo, l'omaggio al flautista italiano cui Dolphy sentiva di dovere più di una delle idee che egli aveva poi trasportato in ambito jazzistico, trovando una propria voce anche a questo strumento. Dopo le prime tredici battute, strutturate secondo una linea melodica ben precisa, i musicisti liberano il proprio estro creativo. Non possiamo non pensare a questo brano come al cuore del disco. Il flauto che qui è protagonista delle improvvisazioni dolphyane, è preceduto da due brani in cui il leader si serve del clarinetto basso, e seguito da due brani in cui invece è il sassofono contralto a dialogare con gli altri strumenti. Dolphy ha creato un equilibrio perfetto senza aver bisogno di dar vita ad un album a tema, a un 'concept' (come sarà invece il contemporaneo A Love Supreme). Se nei primi due brani abbiamo un Dolphy 'urticante', qui possiamo 'riposarci' con un blues caratterizzato da un aroma insolito; la voce del contralto, meno assertiva di quella del tenore, chiude il cerchio con il suo timbro atipico (pochi sassofonisti sono diventati dei maestri con questo strumento: colpa, forse, del timore di non eguagliare il 'mito' Bird: non è un caso che Ornette Coleman abbia scioccato il pubblico, nei suoi primi concerti, utilizzandolo in maniera antidogmatica - e per di più, colmo della mancanza di rispetto, utilizzandone uno di plastica!)
Out To Lunch è la 'libera maratona' dell'album: dodici minuti introdotti da un ritmo 'bandistico' di Williams (quasi una chiamata alle armi....) e da un nuovo tema che vede tromba e contralto in unisono. Come afferma Dolphy nelle note di copertina, il brano è costruito attorno ad una figura ricorrente in 5/4, che definisce il ritmo e il feeling degli assolo; tuttavia, nella sezione improvvisata, gli strumenti non seguono nessun ritmo in particolare. Quando uno dei musicisti esegue il suo assolo, gli altri strumentisti si limitano a sottolinearne o rinforzarne l'espressività con la propria presenza o assenza: l'assolo di Dolphy, ad esempio, è rinforzato dagli accordi pizzicati e poi dai legati di Davis; Hutcherson enfatizza la tromba di Hubbard in funzione coloristica, ad un certo punto riprende una veloce figura del compagno e la ripete, poi torna a contornarla con accordi più aperti per poi enfatizzare basso e batteria con rapidi colpi, quasi fossero cluster pianistici, per poi iniziare il proprio assolo, mentre il contrabbasso passa agli accordi pizzicati; l'assolo di Davis è costruito su figure di note legate. Una nuova, rauca figurazione del contralto reintroduce la batteria, e infine tromba e sassofono si alternano fino al reintrodurre la figura iniziale.
Straight Up and Down, il brano di chiusura del disco, è introdotto da due note di vibrafono, prima di un nuovo unisono tra sax e tromba; l'alternanza tra fiati e vibrafono si ripete per ben quattro volte; l'assolo di Dolphy è il più lirico, ma non privo di dissonanze e, soprattutto, di bruschi salti armonici; la tromba dialoga alla perfezione con il vibrafono, che ne sottolinea ogni pausa con un paio di rapidi colpi; Hutcherson si produce, giunto il suo turno, in una rapida sequenza di fughe scalari alternandole a ripetizioni ritmiche cui fanno da contraltare i legati e gli ostinati di Davis; dopo un dialogo tra vibrafono e contrabbasso, lo stesso Hutcherson, assieme a Dolphy, riprende il tema iniziale prima di chiudere.
Un discorso musicale quasi zen, dicevamo: la qualità più evidente del disco è proprio la gentilezza con cui i brani sono sviluppati. Lontano dai furori di un Archie Shepp, dagli 'spiriti' ayleriani, dal solismo 'ossessivo' di Coltrane, dalle complesse ed entropiche trame tayloriane, Out to Lunch! è una delle opere fondamentali di quella che è stata una delle ultime stagioni realmente innovative della musica improvvisata di matrice jazzistica (essendo le ultime due quella dell'AACM e poi l'improvvisazione radicale di matrice europea); la musica qui contenuta riflette l'animo di un uomo che dai propri sodali o collaboratori è stato tenuto in considerazione non solo per le proprie doti tecniche e per i progetti musicali condivisi, ma anche per la gentilezza della persona. Dolphy si recherà in Europa per una serie di concerti con Mingus poco dopo queste registrazioni, ci resterà qualche mese con l'intento di alleggerirsi dal peso della critica (era stato quello più bistrattato, tra tutti i 'nichilisti' della "new thing"), il tempo di incidere una manciata di brani e di morire. Ammesso sia vero che il tempo è galantuomo (Dolphy non ha 'raccolto' quanto alcuni dei suoi più noti colleghi), il destino non lo è di certo. Dolphy era fuggito dagli Stati Uniti anche per lasciarsi alle spalle il razzismo, non solo culturale, che stava ormai rendendo la vita impossibile soprattutto a quei musicisti che stavano cercando nuove forme di espressione. Imparò a sue spese che il Vecchio Continente non ne era affatto immune. Un malore improvviso lo porta in ospedale, e il medico si 'arrende all'evidenza'. E' solo un altro musicista jazz drogato in astinenza quello che si trova davanti. Sbagliato: la diagnosi corretta, come sarà evidente dopo la morte del 'negro drogato', era coma diabetico.
"You understand what I mean? And uh [pause] it's hard to say at the moment, as I'm sittin' here, because you know, ah, improvisation - the thing only happens at the moment when you do it-" (Eric Dolphy intervistato da Leonard Feather)
Nota: questo articolo l'ho scritto, ma mai pubblicato, nell'inverno del 2008. Lo riprendo ora, senza rivederlo (sono sicuro che lo riscriverei .... ) per rendere omaggio a una delle figure più interessanti e più (ancora, purtroppo) sottovalutate nel mondo della musica di improvvisazione. E' una questione di amore, più che di 'critica'.
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Saturday, September 25, 2010
Touchin' on Trane
23 Settembre 1926: nasce John Coltrane |
“I never even thought about whether or not they understand what I'm doing . . . the emotional reaction is all that matters as long as there's some feeling of communication, it isn't necessary that it be understood.” (John Coltrane)
Esiste un punto di contatto tra la perdita e la consapevolezza? Esiste una qualche forma artistica che abbia mostrato una specie di presentificazione del dolore nel momento stesso in cui tende verso l'esplorazione di nuove forme?
Ascolti India, ad esempio, e ti domandi cosa mai avrà pensato Ravi Shankar (di cui il sassofonista di Seattle era un fervente ammiratore). Sicuramente sarà rimasto turbato.
Ascolti Meditations, e senti che nessun altro musicista ha incarnato quella pienezza dello spirito che non è mai appartenuta alle religioni occidentali.
Ascolti un brano come Dearly Beloved e improvvisamente capisci.
Ascolti i dischi realizzati con Miles Davis, Thelonious Monk, Don Cherry, Cecil Taylor, e pensi che in fondo solo quella vecchia volpe di Miles ha saputo sfruttare il suo stato nascente, indirizzarlo, mischiarcisi.
Mai capace di essere altro da se stesso, Trane, nel bene e nel male. Icona già in vita, si è trovato al crocevia di tutta una serie di discorsi musicali e culturali: l'avanguardia, la fede, i cambiamenti. Li ha attraversati tutti senza lasciarsi, in fondo, determinare da nessuno di essi. Eccedendoli, in senso antropologico.
Perché non esiste la banalità del bene: non solo per raggiungerlo, ma anche solo per desiderarlo, occorrono almeno tre movimenti, quelli che dànno il titolo al suo disco più famoso.
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