Pubblicato lo stesso anno di A Love Supreme di John Coltrane, Out to Lunch! è annoverato tra i capolavori di quella corrente musicale allora chiamata New Thing o, dai suoi detrattori, Anti-jazz. E' anche considerato il 'testamento spirituale' dell'arte di Eric Dolphy. Uno dei capolavori della musica del novecento, ma anche un oggetto che ci permette di intravedere i segni di quelle trame che, di lì a qualche anno, vedranno letteralmente esplodere nuove 'contaminazioni' tra una musica saldamente ancorata alle proprie radici ma capace di dialogare alla pari con mondi diversi. Pensate solo a quanto ha prodotto Anthony Braxton (dall'amore dichiarato in parole e musica per la contemporanea alle collaborazioni con Richard Teitelbaum), o alla 'musica totale' di Don Cherry (le aperture alle musiche poi conosciute come 'etniche' e le collaborazioni con Penderecki). Del resto, le fonti alle quali ha attinto la musica e la tecnica di questo strumentista, lo vedremo tra breve, sono delle più varie, anche se ricondotte ad un'ottica e ad una estetica 'blues'.
Sarebbe sbagliato fermarsi ad etichettare "Out to Lunch!" come un disco di musica 'improvvisata'. Il disco in questione non è, infatti, frutto di una unica session di registrazione, come era accaduto nel 1960 con "Free Jazz" del doppio quartetto di Ornette Coleman (in cui Dolphy era alla testa del secondo quartetto). Si tratta di un lavoro molto più simile, nella gestazione anche se non nei risultati, ai coevi dischi di Cecil Taylor (Unit Structures, Conquistador!). Non è un caso, del resto, che uno dei brani sia dedicato a Severino Gazzelloni, uno dei massimi strumentisti dell'avanguardia colta europea. Il legame con l'Europa, prima della 'diaspora' dell'AACM, verrà testimoniato inoltre da quel 'Last Date' che, con la presenza del pianista olandese Misha Mengelberg, anticipa quel legame con l'Europa che, dagli anni settanta in poi, permetterà, la definitiva affermazione della 'great black music' nel vecchio continente e la nascita di nuovi, fecondi rapporti con le scene autoctone che proprio alla fine degli anni sessanta avevano iniziato ad elaborare una propria autonoma identità musicale.
Il polistrumentista di Los Angeles, del resto, era dotato di una curiosità onnivora, e le sue collaborazioni sono testimonianza di interessi che potrebbero apparentemente sembrare antitetici. Due nomi per tutti: Gunter Schuller, il rispettato e 'musicalmente corretto' fautore di quel fallimento (storicamente parlando...) denominato "Third Stream" (ovvero il tentativo di unire jazz e musica classica europea) e Ornette Coleman, profeta del 'jazz a venire' e della 'libertà', così avversato dalla critica ai suoi inizi per la sua totale mancanza di 'ortodossia'. A dire il vero, visti con il 'senno di poi', non si tratta di materie così distanti: se Charlie Parker, girava portandosi sotto il braccio gli spartiti dell'Uccello di Fuoco di Stravinsky, un altro 'santone' della musica nera, John Coltrane, aveva esaminato attentamente le ultime opere del compositore russo, oltre che i famosi studi sulla scala cromatica lidia di George Russell (che con Schuller e la sua banda di 'risciacquatori del jazz in acque bianche', aveva più di un interesse e una collaborazione in comune).
Formatosi nell'orchestra di Roy Porter alla fine degli anni '40, Eric Dolphy inizia ad acquisire visibilità nel quintetto del pianista Chico Hamilton, prima di incominciare, a partire dal 1959, una feconda amicizia e collaborazione con il contrabbassista Charles Mingus; del 1960 è il suo esordio come leader per la Prestige, con il disco "Outward Bound".
Ancora prima, nel 1957, Dolphy aveva partecipato ai corsi estivi tenuti a Darmstadt dal flautista Severino Gazzelloni, figura importante per la musica colta europea. E' il musicista che ha ridestato interesse attorno al flauto come strumento solista, e Dolphy ne è stato l'equivalente nel mondo della musica improvvisata. Nessuno prima di lui aveva sviluppato un linguaggio solistico per uno strumento dal suono così sottile, soprattutto in un'epoca in cui era il sassofono tenore (o il contralto) a dominare nell'immaginazione della musica nera, e in cui i musicisti più avventurosi stavano 'alzando il volume' a livelli, dalla metà del decennio, in alcuni casi quasi 'disumani' (basti pensare alle performance dal vivo di Pharoah Sanders a fianco di Coltrane....). Eppure le abilità che Dolphy sta sviluppando in questi anni sono funzionali ai suoi interessi onnivori: dal punto di vista strumentistico, se il merito maggiore di Eric Dolphy è stato proprio quello di aver innalzato il flauto al rango di uno strumento solista, gli intervalli atipici e le dissonanze di cui si dimostra capace al clarone sono un'altro dei suoi tratti distintivi (come testimoniano i suoi interventi a fianco dell'amico John Coltrane). Ancora, Enzo Pavone nota l'incontenibilità di Dolphy al contralto, lo strumento d'elezione di Charlie Parker e, poi, di Ornette Coleman. Seppure 'incastrato' tra questi due giganti, a Dolphy non mancano la fantasia e la tecnica; a quanto riferisce Enrico Bettinello a proposito di G.W., dall'esordio come leader "Outward Bound", "il solismo di Dolphy [si spinge] verso nuove direzioni, in cui l'influenza parkeriana è integrata e superata da una più ardita concezione intervallare".
Il 1960 è forse l'anno di più frenetica attività per Eric Dolphy. Se a gennaio incide il primo disco come leader, è tra questa incisione e quella di "Out There", in agosto, il primo tour con Charles Mingus, con cui Dolphy collabora dall'anno prima e in maniera discontinua fino al 1964. Il 21 dicembre di quello stesso 1960 Dolphy incide due dischi in un giorno: "Free Jazz" di Ornette Coleman, alla testa del secondo quartetto presente sull'album, e, a proprio nome, "Far Cry". Non bastasse, il giorno prima aveva partecipato alle sedute d'incisione di "Jazz Abstractions" di John Lewis, con Coleman e Bill Evans, Jim Hall e Scott LaFaro sotto l'attenta orchestrazione di Gunther Schuller e assieme ad un quartetto d'archi.
Ma saranno Mingus e Coltrane, in quegli anni, i partner privilegiati. Se col contrabbassista Dolphy condivide l'esperienza della Candid, uno dei primi tentativi, e di valore artistico assoluto, di etichetta 'autogestita' da musicisti di colore (vale la pena che prendiate nota di qualche titolo: "Charles Mingus Presents Charles Mingus", "Candid Dolphy" e la famosa "Freedom Now Suite" del batterista Max Roach), dal 1961 il nostro si dedica anche al progetto musicale di Coltrane. Di Dolphy sono le orchestrazioni dei fiati di "Africa/Brass", esordio dell'amico sassofonista per la Impulse!, e a fianco del più celebrato quartetto della storia del jazz Dolphy sarà presente nelle storiche serate del Village Vanguard (documentate nel cofanetto "The Complete Village Vanguard Recordings", oltre che su "Impressions"). Assieme a Trane, Dolphy si ritroverà, infine, davanti al 'tribunale' della rivista Down Beat per rispondere alle 'accuse' di suonare una musica 'nichilista'.
“Trovo piacevole quanto sto cercando di fare. Interessante – è questo che mi spinge. Questa sensazione mi aiuta a suonare. E’ come se non avessi idea di quello che farai dopo. Non ne hai idea, ma quel che accade è sempre qualcosa di spontaneo. E’ questa sensazione, per me, a guidare tutto il gruppo. Quando John suona, ti può condurre a qualcosa che non hai idea di come terminare. Oppure è McCoy a fare qualcosa. O il modo in cui suonano Elvin [Jones, il batterista del gruppo] o Jimmy [Garrison, il bassista]; fanno un assolo, fanno qualcosa in maniera differente. Sento che è questo ciò che fa per me" ("John Coltrane and Eric Dolphy Answer The Jazz Critics", dalla rivista "Down Beat", 1962)
La risposta di Dolphy indica una delle coordinate fondamentali della musica che si stava sviluppando in quegli anni: l'interazione come stimolo a trovare nuovi linguaggi e nuove strutture nel momento stesso in cui si suona. I concerti e i dischi registrati in studio come banco di prova e testimonianza di una evoluzione in cui ci si confronta con le proprie radici, la propria tradizione (una cosa che distingue la cosiddetta 'avanguardia' jazz rispetto a quella colta è che la 'rottura' col passato è più una sensazione della critica, mentre i musicisti si sentono 'nel solco' di quella tradizione, hanno la chiara percezione - più volte ribadita anche pubblicamente - di sviluppare qualcosa che non nasce dal nulla, ma che è il naturale sviluppo di quanto fatto dai loro predecessori). Non è un caso che Dolphy abbia pubblicato, in un arco di tempo brevissimo, otto album a proprio nome e abbia collaborato, limitandoci all'essenziale, almeno a un'altra dozzina di dischi. Come per Coltrane, che dal 1964 al 1967 registra incessantemente nuovo materiale negli studi di Van Gelder, o come per Albert Ayler, si è parlato spesso di una creatività spinta agli estremi, quasi fosse un presagio della prematura scomparsa di artisti che in un lasso di tempo brevissimo hanno lasciato un corpus di opere notevole. Credo che sia piuttosto da sottolineare come l'urgenza di una musica che è mossa più dal bisogno di 'progredire' che di 'definirsi' e che per questo si sottopone a incessanti stimoli, abbia trovato nelle incisioni un punto d'appoggio fondamentale per dare testimonianza di se stessa e delle proprie tappe più importanti. Lungi dall'essere iperattività o presenzialismo (come troppo spesso succede oggi, in epoca post-moderna, e non solo nell'ambito dell'improvvisazione), quando non, addirittura, consapevolezza della e resistenza alla morte (una visione a nostro giudizio troppo romantica eppure sostenuta da parecchi, vedi Frank Kofsky nel suo "John Coltrane and the Jazz Revolution of the '70s"), si è trattato di una stagione che ha potuto piantare fertili semi creativi; e, anche se non possiamo non sottolineare che ci sia sicuramente stata anche una qualche forma di speculazione discografica (post mortem), pochi se non quasi nessuno di quei 'prodotti' sono superflui. Al limite, alcuni sono più importanti di altri in quanto luoghi in cui assistiamo ad una ricomposizione della pratica musicale, in cui nuovi stimoli e soluzioni espressive vengono elaborate allo scopo di rinnovare un linguaggio sempre in fermento e capace di assimilare linguaggi e forme 'altrui' integrandole nella propria ottica o, viceversa, mutandola. "Out to Lunch!" si distacca parecchio da quanto Dolphy ha fatto in precedenza. Teso tra libertà creativa da un lato, e consapevolezza compositiva dall'altra, "Out to Lunch!" è un capolavoro di sincretismo ed equilibrio tra direttrici.
"La libertà in Dolphy è raggiunta in un corpo a corpo con una struttura da aggirare, scavalcare, infrangere. Lo stesso vale per il ritmo. Out To Lunch! appare "più libero" dei dischi precedenti perchè prima Dolphy aveva ritmiche normali, col piano che fa gli accordi. Qui no." (Marcello Piras).
Eccoci quindi al lavoro di Dolphy e dei suoi sodali, non semplici 'accompagnatori' ma veri e propri musicisti 'alla pari' ("In Out to Lunch! non ci sono leader", dichiarerà lo stesso Dolphy).
Freddie Hubbard, trombettista, aveva destato scalpore alla tenera età di 18 anni tra le file dei Jazz Messengers di Art Blakey; rimarrà sempre molto legato al mondo dell'hard bop, nonostante sia stato, assieme a Booker Little, tra gli innovatori del proprio strumento e le numerose scorribande in territori più liberi. Il suo fraseggio, nervoso e controllato nello stesso tempo, si adatta perfettamente all'emotività apparentemente trattenuta (e per questo foriera di tensione) che caratterizza il disco. Già collaboratore di Eric Dolphy in Free Jazz, parteciperà anche, l'anno successivo, al capolavoro Ascension di Coltrane. Ritmicamente 'ortodosso', è capace di scatti nervosi e controllati nello stesso tempo; in questo disco potete ascoltare come ama 'raddoppiare' le melodie dei temi dolphyani e, poco dopo, lanciarsi in performance solistiche 'di fuoco'. Bobby Hutcherson (di qui a poco anche a fianco di Archie Shepp, come testimonia l'album "New Thing At Newport") ha una concezione 'orchestrale' del proprio strumento. Non è un vibrafonista nel senso tradizionale del termine: le sue note 'in sospensione' sotto gli assolo graffianti di Dolphy, la concezione armonica dei suoi stessi assolo, la ricettività nei confronti dei suoi compagni (che si tratti di fare da bordone per sottolinearne i passaggi o che risponda con prontezza alle loro intuizioni - un colpo di tom del batterista cui ribatte quasi in funzione contrappuntistica, una melodia per sostenere un contrabbasso archettato, la ripetizione di una melodia o addirittura di un frammento di un assolo di Hubbard....) mostrano una sensibilità e un'inventiva pari a quella di un pianista come McCoy Tyner, che si serve di accordi aperti per evitare di definire in maniera predeterminata la struttura di un brano. "Il vibrafono di Bobby ha un suono più libero, più aperto di quello di un pianoforte. Il pianoforte sembra avere il controllo su quello che fai, mentre il vibrafono di Bobby è in grado di spingerti ad espandere le tue possibilità" (Eric Dolphy). Richard Davis, avesse lavorato solo a questo disco, un posto nella storia della musica se lo sarebbe meritato senza se e senza ma. Ricettivo nei confronti della tradizione 'colemaniana' di bassisti come Scott LaFaro e Charlie Haden, dimostra la sua abilità sia nel suonare modulazioni di accordi pizzicando più note (ascoltate il modo in cui 'prepara lo spazio' all'introduzione del tema di Hat And Beard) sia con l'archetto; è ugualmente abile nei legati, e dimostra di saper alternare sapientemente le varie tecniche con una versatilità che ne fanno il perfetto contraltare melodico-ritmico del leader (potete verificarlo ascoltando l'inizio e lo sviluppo di Something Sweet, Something Tender). Forse, dopo mezzo secolo di swing, i musicisti jazz hanno sviluppato una specie di metronomo interiore. Non hanno più bisogno di un accompagnamento ritmico, ma di qualcosa che fornisca loro una maggiore apertura ritmica. Questa l'idea di base del batterista Anthony Williams, ideale anello di congiunzione tra la complessa poliritmia di un Elvin Jones o di un Ed Blackwell e la totale libertà ritmica di un Sunny Murray. Lo snare ed i cimbali sono, tra i vari componenti del suo strumento, quelli che in questa registrazione mostra di prediligere per dare colore, movimento e per dialogare con gli altri musicisti.
La perfetta integrazione tra i musicisti non è frutto del caso o dell'estemporaneità. Dolphy aveva già avuto modo di suonare con ognuno di loro, negli anni precedenti, con l'eccezione del batterista. Hubbard era presente su "Outward Bound", e Dolphy aveva contraccambiato il favore suonando sul disco d'esordio del trombettista come leader, "The Body and the Soul", pubblicato un anno prima delle presenti sedute di incisione. Erano stati, come già sottolineato, entrambi nello stesso quartetto nello storico doppio album di Ornette Coleman del '60, continuando poi a frequentarsi in dischi come "Olé!" di Coltrane e "The Blues and the Abstract Truth" di Oliver Nelson. Davis aveva partecipato ai concerti al Five Spot da cui la Prestige ricaverà tre album live a nome di Dolphy, ed inoltre entrambi avevano partecipato alla Orchestra U.S.A. di Gunther Schuller e John Lewis. Hutcherson è sicuramente il musicista che ha collaborato più a lungo con Dolphy, dato che i due si conoscevano da quando erano ragazzi, e il vibrafonista era diventato partner regolare di Dolphy da quando un giovane Herbie Hancock aveva lasciato il suo gruppo per unirsi a quello di Miles Davis. Williams è dunque, come dicevamo, la 'mosca bianca' del gruppo: non un novellino, comunque, dato che nel suo curriculum compaiono i nomi di Jackie McLean e di Gracham Moncur III.
Aperto da un secco unisono di tromba e clarone, Hat and Beard è un omaggio di Dolphy a Thelonious Monk. Le coordinate del disco sono stabilite sin dall'inizio: dopo quella secca nota introduttiva, contrabbasso e batteria stabiliscono l'andamento del brano, con una figura di basso enfatizzata dagli echi del vibrafono, che ne raddoppia la melodia sinusoidale. Dolphy segue la melodia di Davis con una serie di note slegate per poi introdurre un nuovo tema assieme ad Hubbard. Parte il primo assolo di Dolphy: rauco, graffiante, con un'ampiezza armonica maneggiata con serenità quasi zen eppure emozionante (ascoltate i suoi salti dal registro basso a quello acuto), alternando suoni distorti e pause, nelle quali Davis si serve di tutte le doti coloristiche del contrabbasso per sottolineare il contrasto tra i 'pieni' e i 'vuoti' del leader. Nonostante il suo andamento sembri 'marcettistico', è nell'elasticità dell'eloquio che assaporiamo la libertà e la fantasia di cui l'ensemble è capace. Ma è durante l'assolo di Hubbard che Davis mostra la sua capacità di padroneggiare la tavolozza dei colori del proprio strumento, passando al pizzicato finché non entra, con un proprio assolo, il vibrafono, cui Williams fa da contrappunto con snare e cimbali. A questo punto, Hubbard e Dolphy chiudono con la ripresa del loro tema iniziale, di nuovo in unisono.
Essenziali come Monk, insomma, parco di note al punto di essere accusato di "non saper suonare", dimostrando, al contrario, una concezione dello spazio sonoro atipica per il periodo. Dovrebbe essere ormai chiaro che "Mad Monk" non era un bopper, anche se quello era 'il linguaggio dei tempi' e, di conseguenza, dei musicisti che lo accompagnavano: per questo l'autore di Brilliant Corner ha creato musica che è stata poi tenuta in considerazione anche da artisti di correnti artistiche differenti - pensiamo alla rilettura di 'Epistrophy' da parte dei Lounge Lizards - mentre musicisti pur geniali come Parker o Gillespie sono sempre rimasti legati, a livello di immaginario, al jazz e da lì non sono mai usciti. Detto che non stiamo sminuendo figure così importanti, stiamo solo affermando che non c'è mai stato un recupero 'dal basso' del materiale elaborato dai geni del bebop, mentre musicisti 'collaterali' come Monk, e, più tardi, Mingus e Ayler (altri due 'eccentrici') sono stati ampiamente ascoltati e recepiti anche in ambienti esterni al mondo del jazz. E che tutto ciò non è frutto del caso.
Un altro saggio delle capacità di Dolphy al clarone è Something Sweet, Something Tender. Si tratta, in sostanza, di un lirico dialogo tra clarinetto e basso; Davis enfatizza con l'archetto il tema di Dolphy, iniziando così un dialogo in cui, quasi in punta di piedi, si introducono piano piano gli altri strumentisti (Williams utilizza pochissimo le bacchette, prediligendo le spazzole per quasi tutto il brano). Hubbard prende il posto del basso prima di lasciare Dolphy da solo, delicatamente accompagnato da un Hutcherson che colora l'assolo del compagno con qualche leggera vibrazione, finché la tromba non torna ad accompagnare il tema iniziale (ecco che Williams passa alle bacchette...). Ai graffi di Dolphy fanno eco alcune rapide figure di basso; ancora qualche accordo e il clarinetto è di nuovo in solitudine per poi essere di nuovo accompagnato da un contrabbasso che raddoppia la melodia giocando su cambi di registro.
Gazzelloni è, come anticipavamo, l'omaggio al flautista italiano cui Dolphy sentiva di dovere più di una delle idee che egli aveva poi trasportato in ambito jazzistico, trovando una propria voce anche a questo strumento. Dopo le prime tredici battute, strutturate secondo una linea melodica ben precisa, i musicisti liberano il proprio estro creativo. Non possiamo non pensare a questo brano come al cuore del disco. Il flauto che qui è protagonista delle improvvisazioni dolphyane, è preceduto da due brani in cui il leader si serve del clarinetto basso, e seguito da due brani in cui invece è il sassofono contralto a dialogare con gli altri strumenti. Dolphy ha creato un equilibrio perfetto senza aver bisogno di dar vita ad un album a tema, a un 'concept' (come sarà invece il contemporaneo A Love Supreme). Se nei primi due brani abbiamo un Dolphy 'urticante', qui possiamo 'riposarci' con un blues caratterizzato da un aroma insolito; la voce del contralto, meno assertiva di quella del tenore, chiude il cerchio con il suo timbro atipico (pochi sassofonisti sono diventati dei maestri con questo strumento: colpa, forse, del timore di non eguagliare il 'mito' Bird: non è un caso che Ornette Coleman abbia scioccato il pubblico, nei suoi primi concerti, utilizzandolo in maniera antidogmatica - e per di più, colmo della mancanza di rispetto, utilizzandone uno di plastica!)
Out To Lunch è la 'libera maratona' dell'album: dodici minuti introdotti da un ritmo 'bandistico' di Williams (quasi una chiamata alle armi....) e da un nuovo tema che vede tromba e contralto in unisono. Come afferma Dolphy nelle note di copertina, il brano è costruito attorno ad una figura ricorrente in 5/4, che definisce il ritmo e il feeling degli assolo; tuttavia, nella sezione improvvisata, gli strumenti non seguono nessun ritmo in particolare. Quando uno dei musicisti esegue il suo assolo, gli altri strumentisti si limitano a sottolinearne o rinforzarne l'espressività con la propria presenza o assenza: l'assolo di Dolphy, ad esempio, è rinforzato dagli accordi pizzicati e poi dai legati di Davis; Hutcherson enfatizza la tromba di Hubbard in funzione coloristica, ad un certo punto riprende una veloce figura del compagno e la ripete, poi torna a contornarla con accordi più aperti per poi enfatizzare basso e batteria con rapidi colpi, quasi fossero cluster pianistici, per poi iniziare il proprio assolo, mentre il contrabbasso passa agli accordi pizzicati; l'assolo di Davis è costruito su figure di note legate. Una nuova, rauca figurazione del contralto reintroduce la batteria, e infine tromba e sassofono si alternano fino al reintrodurre la figura iniziale.
Straight Up and Down, il brano di chiusura del disco, è introdotto da due note di vibrafono, prima di un nuovo unisono tra sax e tromba; l'alternanza tra fiati e vibrafono si ripete per ben quattro volte; l'assolo di Dolphy è il più lirico, ma non privo di dissonanze e, soprattutto, di bruschi salti armonici; la tromba dialoga alla perfezione con il vibrafono, che ne sottolinea ogni pausa con un paio di rapidi colpi; Hutcherson si produce, giunto il suo turno, in una rapida sequenza di fughe scalari alternandole a ripetizioni ritmiche cui fanno da contraltare i legati e gli ostinati di Davis; dopo un dialogo tra vibrafono e contrabbasso, lo stesso Hutcherson, assieme a Dolphy, riprende il tema iniziale prima di chiudere.
Un discorso musicale quasi zen, dicevamo: la qualità più evidente del disco è proprio la gentilezza con cui i brani sono sviluppati. Lontano dai furori di un Archie Shepp, dagli 'spiriti' ayleriani, dal solismo 'ossessivo' di Coltrane, dalle complesse ed entropiche trame tayloriane, Out to Lunch! è una delle opere fondamentali di quella che è stata una delle ultime stagioni realmente innovative della musica improvvisata di matrice jazzistica (essendo le ultime due quella dell'AACM e poi l'improvvisazione radicale di matrice europea); la musica qui contenuta riflette l'animo di un uomo che dai propri sodali o collaboratori è stato tenuto in considerazione non solo per le proprie doti tecniche e per i progetti musicali condivisi, ma anche per la gentilezza della persona. Dolphy si recherà in Europa per una serie di concerti con Mingus poco dopo queste registrazioni, ci resterà qualche mese con l'intento di alleggerirsi dal peso della critica (era stato quello più bistrattato, tra tutti i 'nichilisti' della "new thing"), il tempo di incidere una manciata di brani e di morire. Ammesso sia vero che il tempo è galantuomo (Dolphy non ha 'raccolto' quanto alcuni dei suoi più noti colleghi), il destino non lo è di certo. Dolphy era fuggito dagli Stati Uniti anche per lasciarsi alle spalle il razzismo, non solo culturale, che stava ormai rendendo la vita impossibile soprattutto a quei musicisti che stavano cercando nuove forme di espressione. Imparò a sue spese che il Vecchio Continente non ne era affatto immune. Un malore improvviso lo porta in ospedale, e il medico si 'arrende all'evidenza'. E' solo un altro musicista jazz drogato in astinenza quello che si trova davanti. Sbagliato: la diagnosi corretta, come sarà evidente dopo la morte del 'negro drogato', era coma diabetico.
"You understand what I mean? And uh [pause] it's hard to say at the moment, as I'm sittin' here, because you know, ah, improvisation - the thing only happens at the moment when you do it-" (Eric Dolphy intervistato da Leonard Feather)
Nota: questo articolo l'ho scritto, ma mai pubblicato, nell'inverno del 2008. Lo riprendo ora, senza rivederlo (sono sicuro che lo riscriverei .... ) per rendere omaggio a una delle figure più interessanti e più (ancora, purtroppo) sottovalutate nel mondo della musica di improvvisazione. E' una questione di amore, più che di 'critica'.