“I never even thought about whether or not they understand what I'm doing . . . the emotional reaction is all that matters as long as there's some feeling of communication, it isn't necessary that it be understood.” (John Coltrane)
Esiste un punto di contatto tra la perdita e la consapevolezza? Esiste una qualche forma artistica che abbia mostrato una specie di presentificazione del dolore nel momento stesso in cui tende verso l'esplorazione di nuove forme?
Ascolti India, ad esempio, e ti domandi cosa mai avrà pensato Ravi Shankar (di cui il sassofonista di Seattle era un fervente ammiratore). Sicuramente sarà rimasto turbato.
Ascolti Meditations, e senti che nessun altro musicista ha incarnato quella pienezza dello spirito che non è mai appartenuta alle religioni occidentali.
Ascolti un brano come Dearly Beloved e improvvisamente capisci.
Ascolti i dischi realizzati con Miles Davis, Thelonious Monk, Don Cherry, Cecil Taylor, e pensi che in fondo solo quella vecchia volpe di Miles ha saputo sfruttare il suo stato nascente, indirizzarlo, mischiarcisi.
Mai capace di essere altro da se stesso, Trane, nel bene e nel male. Icona già in vita, si è trovato al crocevia di tutta una serie di discorsi musicali e culturali: l'avanguardia, la fede, i cambiamenti. Li ha attraversati tutti senza lasciarsi, in fondo, determinare da nessuno di essi. Eccedendoli, in senso antropologico.
Perché non esiste la banalità del bene: non solo per raggiungerlo, ma anche solo per desiderarlo, occorrono almeno tre movimenti, quelli che dànno il titolo al suo disco più famoso.